Ciò che rende così coinvolgente e ricca la fotografia di Simona Ghizzoni – che sia in chiave documentaristica, di osservazione partecipata, o in quella più lirica dell’omaggio a Francesca Woodman – è la percezione che provenga da un pensiero e da una personalità che molto ha esplorato – il mondo fotografico come quello dell’arte e della letteratura – prima di approdare a uno stile vibrante, capace di raccontare vite e esperienze complesse e dolorose, e di evocare, anche, la violenta tenerezza di colei che per prima le ispirò la passione fotografica, Diane Arbus.

Odd Days. Simona, durante il ricovero presso la Residenza Palazzo Francisci di Todi, struttura all’avanguardia nella cura dei disturbi del comportamento alimentare. 2007
Intervista a Simona Ghizzoni (di Cristina Bolzani)
Il suo lavoro a si sofferma su figure femminili ferite, dai disturbi alimentari alle conseguenze della guerra, alle mutilazioni genitali. Come ha scelto di ‘sentire’ e documentare queste realtà complesse?
Credo che tutto sia iniziato nella mia adolescenza. Ho sofferto per quasi dieci anni di disturbi alimentari e di quegli anni, di cui purtroppo ho poca memoria, ricordo però la necessità di trasformare la sofferenza in uno strumento per realizzare “qualcos’altro”, pur non sapendo ancora cosa. Ero ossessionata dalla lettura, leggevo qualsiasi cosa mi capitasse tra le mani in biblioteca, affascinata dai titoli o dalle immagini di copertina, e prendevo a prestito libri d’arte di cui fotocopiavo le pagine che preferivo per poterle rivedere quando desiderassi. Il primo regalo che chiesi ai miei genitori per i 18 anni fu di andare a Londra da sola, per potermi perdere tra le innumerevoli gallerie. Tornai coi capelli rasati, con grande disperazione dei miei genitori, e la decisione che avrei iniziato a studiare musica e arte.
Poi arrivò la fotografia, attraverso le immagini di Diane Arbus. Mi riconoscevo in quel suo universo fatto di creature ai margini, fotografate con una violenta tenerezza, come a volersi appropriare di tutto: vicino, così vicino da fare paura. Era il 1998. Nel 2006, raccolte le forze, decisi di iniziare il mio primo lavoro fotografico, Odd Days, sui disturbi alimentari, mossa da una convinzione, forse ingenua forse boriosa, ma tant’è, che ci fosse bisogno di raccontare la realtà di chi soffre di anoressia e bulimia senza indulgere sui corpi. Che fosse necessario far capire che questi disturbi parlano di una sofferenza che passa solo esteriormente per la forma corporea, ma che ha radici ben più profonde, ben più comprensibili e condivisibili: un senso di inadeguatezza alle richieste del mondo, che conduce al vicolo cieco dell’isolamento e dell’auto-privazione.
L’esperienza con le ragazze che ho conosciuto durante i quasi tre anni di lavoro mi ha portato a decidere di continuare, nei lavori successivi, a lavorare sulla condizione femminile. Nel 2007, poi, conobbi quella che sarebbe diventata la mia più grande complice, la collega giornalista e scrittrice Emanuela Zuccalà, anche lei attenta alla condizione femminile. Assieme a lei, pian piano, ho iniziato a lavorare a temi sempre più complessi, più lontani in termini geografici e di esperienze condivise, ma sempre con la necessità di parlare delle conseguenze delle violenze subite dalle donne in una maniera intima ma non pietistica.

Uncut. Sharon, 15 anni, una delle ospiti del centro di recupero di Kongelai. Sharon è fuggita da casa per evitare la mutilazione genitale rituale e il matrimonio combinato con un uomo di 60 anni. Kenya. 2015
In Davanti al dolore degli altri Susan Sontag scrive che che la fotografia è un documento che produce un ‘pensiero critico’, dunque non necessariamente emotivo, e che non è detto che esserne commossi sia la reazione ottimale. E’ d’accordo? Quali vorrebbe che fossero le conseguenze prodotte dalle sue fotografie?
Sontag usa anche altre parole, come indignazione. Parla di reazioni immediate. E lo ha fatto prima ancora di aver visto appieno cosa succeda oggi con la diffusione a tappeto dei social media, arena che ha esasperato le reazioni emotive istantanee, in cui la commozione dura un soffio, la rabbia un commento.
Sontag parla della commozione come di un sentimento instabile, facile al dissolversi quando non sia corroborato dall’azione. Sono d’accordo. Per questo nel mio lavoro ho sempre prediletto la fotografia documentaristica. Per sua definizione, la fotografia documentaristica “si sporca le mani”, non teme di affermare il proprio pensiero su ciò che si vede, e, in quello che per me è il migliore dei casi, diventa una forma di attivismo. Secondo la definizione dell’Open Society Foundation, la fotografia documentaristica è l’equivalente dell’osservazione partecipata nell’antropologia e nell’etnologia, nasce nella creazione di un legame e di esso si nutre. Io vivo in quello spazio di dialogo e vita condivisa. Quello che accade dopo non posso prevederlo. La reazione di chi si trovi di fronte alle mie immagini, non credo debba essere parametro per la creazione del lavoro, al contrario, quello che posso tentare di fare, con risultati alterni, è di restituire a chi vede, almeno in piccola parte, ciò che io ho provato trovandomi sul campo. Poi il lavoro va “lasciato andare”, anzi, peggio, te ne devi liberare, per poter continuare. Devi sperare che sia autonomo, che parli da solo, che continui a porre domande a chi lo veda.
Per tornare a Sontag, il pubblico davanti al dolore degli altri può anche decidere di volgere lo sguardo altrove, o di tapparsi gli occhi. Se qualcosa spero di ottenere, con le mie immagini, è di avvicinare gli sguardi e non allontanarli, anche quando si parli di esperienze di sofferenza estrema.
Dall’anno prossimo il Word Press Photo introdurrà un concorso di creative documentary photography che premierà le modalità più immaginative possibili per raccontare storie. Cosa pensa di questa incursione degli storytellers nel tempio del fotogiornalismo, e di una fotografia che sia insieme ‘creativa’ e ‘documentaria’?
Ho letto con curiosità di questa che da molti colleghi è stata definita una “deriva pericolosa” del World Press Photo. Devo però sospendere il giudizio, perché sin ora non ho trovato nessuna definizione convincente di cosa effettivamente sia questo fantomatico creative documentary. Cos’è questa nuova ibrida creatura? Qualcuno la biasima come una ricostruzione della realtà, e imputa ai “so-called storytellers” l’infamia di rompere il patto di fiducia tra fotografo e pubblico; altri si entusiasmano per l’apertura a nuove forme di racconto contemporaneo.
La fotografia si evolve, e ben venga, del resto un linguaggio che non si evolve è morto. Il documentario creativo, ammesso che riusciremo mai a trovarne una definizione comune, potrebbe diventare un nuovo alfabeto, oppure, come nelle previsioni più nere, una sorta di “vale tutto”. Eppure non è una novità. Penso al lavoro di Glenna Gordon sul rapimento delle studentesse nella scuola di Chibok in Nigeria del 2014. Che piaccia o meno, quel lavoro apre una serie di questioni su come mostrare un evento a cui non si era presenti e a come raccontarne la memoria e le conseguenze. E penso al lavoro di Laia Abril sull’aborto, a cui è stato dedicato un intero padiglione ad Arles. Un lavoro che parte da una documentazione, da un problema sociale, ma che si esprime in un linguaggio più enciclopedico, quasi un catalogo di aberrazioni storiche, non certo narrativo nei termini giornalistici che ci sono noti.
Come classifichiamo questi lavori? Dobbiamo davvero classificarli? Credo che il WPP abbia semplicemente scelto di non ignorare i cambiamenti del linguaggio visivo del mondo contemporaneo. Se poi questo “tempio del fotogiornalismo” sia il luogo adatto a darci delle risposte e a quali risultati porterà, potremo giudicare con serenità solo a posteriori. Continua a leggere