Luigi Ghirri è stato un maestro (sotto, un eloquente stralcio delle sue Lezioni di fotografia) nel senso più ampio. Un’occasione per coglier nuovi aspetti del grande fotografo è offerto dalla rassegna L’immagine impossibile, alla Galleria Poggiali e Forconi di Firenze.
Protagonisti della personale, con oltre venti immagini vintage, sono soprattutto i paesaggi e l’architettura, costanti del suo mondo. Le prospettive mostrate da Ghirri sono reali, ma anche artificiali, all’apparenza di gradevole semplicità e facili. La sua fotografia ha infatti – come scrive la curatrice Angela Madesani nel testo critico – il potere di variare i rapporti con il reale evocando una naturalità illusoria come ad esempio nella serie di Piazza Betlemme (documentazione di un ciclo pittorico costituito da una serie di trompe-l’oeil eseguiti tra il 1990-1992 da Gino Pellegrini a San Giovanni in Persiceto.)
Qui, in un ironico gioco percettivo, il vero protagonista per il fotografo è il concetto stesso di riproduzione dell’immagine, per cui Ghirri si appropria dello spazio fino a metabolizzarlo e a renderlo proprio.
Centrale è la presenza di immagini dedicate ai giardini; specialmente a quelli di Reggio Emilia, di cui sono in mostra alcuni scatti, che funzionano come una sorta di inventario. Per Ghirri il giardino è un enorme abbecedario della natura, come il luogo appartato, nelle città, dove si mescolano in una misteriosa sospensione tempo e spazio, organizzazione razionale e forme libere.
La fotogallery della mostra Luigi Ghirri – L’immagine impossibile
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«Quando noi fotografiamo, vediamo una parte del mondo e un’altra la cancelliamo.
Il rapporto giusto e corretto con la fotografia va probabilmente pensato proprio nei termini di una dialettica perenne. C’è stato un filosofo (Cacciari, ndr), del quale ho letto recentemente un’intervista, che ha dato la definizione forse più bella che abbia mai sentito della fotografia. Ha detto: “La fotografia non è un problema, la fotografia è uun enigma, perché il problema ha una soluzione e l’enigma è un problema che non ha soluzione”. Non è una definizione, è probabilmente un gioco di parole per non definire, però all’interno di questa definizione di enigma io mi ritrovo pienamente, per le ragioni che ho detto prima e per quella continua contrapposizione , che determina il grande mistero e il grande fascino, e probabilmente anche l’estrema delicatezza della fotografia. Prima parlavo di dualismi. Ad esempio: noi guardiamo una fotografia, è vero, guardiamo un’immagine, però nella nostra mente, consciamente o inconsciamente, proiettiamo un mondo reale che questa immagine rappresenta. Esiste sempre, quindi, una presenza della fotografia e un’assenza dell’uomo, della persona, dell’oggetto, dell’evento in esso rappresentato. C’è un rapporto di singolare analogia con la realtà e, nello stesso tempo, un’evidente differenza dalla realtà. Non è un caso, credo, che il surrealismo, uno dei movimenti artistici che ha frequentato maggiormente la fotografia, appaia dopo la nascita dello psicoanalisi e l’esplorazione dell’inconscio, ma anche dopo la nascita della fotografia. Io credo che nel XIX secolo la prima persona che ha avuto la possibilità di vedere il suo ritratto fotografico, l’immagine di sé praticamente identica (teoricamente) al reale, debba aver provato una sorta di shock emozionale e visivo. Come credo, del resto, accada tuttora a chiunque si veda per la prima volta ritratto in una fotografia. Anche perché nella fotografia, sostanzialmente, non ci vediamo come solitamente vediamo noi stessi, ma come ci vedono gli altri. Non siamo rovesciati come nello specchio, siamo dalla parte dritta: come tu vedi me io vedo te. E quando ci vediamo per la prima volta è uno scarto enorme, perché appaiamo simili a noi, ma nel modo in cui ci vedono gli altri.»
(da Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, p. 24-25)