La galleria milanese Photology ospita (fino al 10 aprile) una mostre di opere fotografiche storiche da collezioni private firmate Mario Giacomelli. Prenotando visite guidate con un gallerista, un collezionista e un curatore, si possono vedere – sul tergo di alcuni scatti – frasi, timbri, adesivi, francobolli, appunti e disegni del fotografo, esplicative dell’immagine o divagazioni forse ispirate da essa. In mostra una selezione di opere storiche acquisite negli anni da collezionisti e appassionati internazionali che ritornano momentaneamente unite una accanto all’ʹaltra, proprio come nell’ʹarchivio di Giacomelli in via Verdi a Senigallia. Durante il percorso sarà possibile vedere un’inedita autobiografia video dell’artista, realizzata nel 1997 da Photology.
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Poeta, pittore. Fotografo. Manicheo negli implacabili neri e/o bianchi, nostalgico, perturbante. Nomina alcune serie ispirandosi a poeti; quella famosa dei vecchi nell’ospizio è Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; altre sono dedicate a Lee Masters, Montale, Leopardi, Emily Dickinson, Luzi, Borges. Dice:
Se dovessi scegliere tra le cose fatte, salvarne una, salverei l’ospizio. Non per l’ospizio in sé, dell’ospizio non me ne frega niente. Quello che mi importa è l’età, il tempo. Tra me e il tempo c’è una discussione sempre aperta, una lotta continua. L’ospizio me ne dà una dimensione più esatta. Prima di fotografare io dipingevo, si potrebbe pensare che dipingere non abbia niente a che fare con il tempo, ma anche allora era il tempo che contava. Ogni sera iniziavo un quadro, e mi imponevo di terminarlo quella notte, anche se non andavo a dormire. Per finire il quadro con quella stessa tensione. Perché il giorno dopo sarei stato un’altra persona, non avrei più sentito le stesse cose.
dall’intervista a Mario Giacomelli di Frank Horvat (da Mario Giacomelli – The Great Photographers, Contrasto – iTunes)
«Diverso da tutti, ostinatamente indigeno della sua stessa fotografia, Giacomelli può definirsi un primitivo. Egli entra nel corpo delle persone come dei luoghi così come dei pensieri e delle paure, della profondità in cui memoria e oblio si confondono, e al tempo stesso della tecnica fotografica, nella quale penetra così fortemente e violentemente da riportarla a uno stato di originaria, quasi rustica grezzezza dominata da un sostanziale manicheismo che vede l’esistenza del solo bianco e del solo nero. I due colori opposti in Giacomelli producono un effetto greve di funerale, di se stesso o del mondo (che è poi il paesaggio contadino nel quale la natura viene sottoposta alla cultura attraverso il lavoro e lo sfruttamento) con le sue forme, le sue fatiche e le sue consunzioni, oppure generano la meraviglia e il bagliore discontinuo di un aldilà misterioso, lontano ma anche terreno ed estremamente presente e radicato nelle cose: il suo sentimento del mondo-paesaggio può dirsi infatti panteistico, e l’immagine ha un fondo arcaico, radicale e sovrastorico». (dal saggio di Roberta Valtorta in Mario Giacomelli – The Great Photographers, Contrasto – iTunes )