E’ abbastanza raro che un pianista diventi un’icona come James Dean. Glenn Gould ci è riuscito. Per la sua visione romantica e mistica della musica; per la sua rinuncia precoce alla platea, all’età di trentun anni, in cambio di una dedizione assoluta ai mezzi elettronici, alla radio, (meno) alla televisione; per l’eloquio e i modi bizzarri. Per quella faccia intensa, spesso stralunata, di uno a cui piaceva stare nel mondo, ma non appartenere al mondo.
Per tutto questo è diventato ‘magico’ – in primis per la sua originalissima, ipnotica interpretazione, ‘ri-composizione’, della musica (a partire dal Bach delle Variazioni Goldberg) – e per le sue eccentricità, i gusti, le idiosincrasie. Ma anche per come ha saputo interpretare se stesso attraverso le foto che gli hanno fatto. Glenn Gould sapeva, oltre che essere solitario, posare da solitario con i gesti e le espressioni, sapeva raccontare la sua sregolatezza, la sua gioia nel suonare, l’estasi. Aveva certo il physique du rôle per farlo, e certo i fotografi di turno hanno saputo ritrarlo, ma difficilmente si può pensare che tutto scaturisse senza una grande consapevolezza, ancora istrionica. Perfino nella foto da piccolo ha un’espressione, grave e altrove, che ‘buca’.
Il piccolo Glenn si rivela fin dai primissimi anni come una specie di bambino prodigio. Una specie, perché, curiosamente, non fu precoce tanto nella bravura tecnica, quanto nella sapienza interpretativa. Forse soffriva dello stesso disturbo di Albert Einstein: lo psichiatra e autore di una biografia, Peter Ostwald, rileva infatti in alcuni tratti del comportamento di Gould la sindrome di Asperger, una variante debole dell’autismo. Di certo aveva una personalità istrionica; oltre ad avvicinarsi da bambino alla musica – la madre, sua prima insegnante di musica, credeva che lui fosse la reincarnazione di Ciaikovsky – aveva anche ambizioni di scrittore, di compositore, di musicologo, di conferenziere, di attore…(appunto)
Di certo era misantropo, cercava la solitudine come condizione necessaria per creare. Al punto da rinunciare, all’apice del successo, alla vita concertistica, «perché quando si danno concerti si bara».