«Due amanti si abbracciano su una panchina di un parco (o in un giardino?) Sono una coppia cittadina, di classe media. Probabilmente non sono consapevoli di essere fotografati. O, se lo sono, adesso hanno quasi dimenticato la macchina fotografica. Sono discreti – come le convenzioni della loro classe richiedevano in qualsiasi occasione pubblica, con o senza macchine fotografiche – ma, nello stesso tempo, il desiderio (o l’ardente desiderio di desiderare) fa sì (o potrebbe fare sì) che si lascino andare. L’evento, nient’affatto eccezionale, è questo. Quel che rende eccezionale la fotografia è che la particolare coesistenza di tutto ciò che in essa vediamo – lo schermo protettore della siepe alle loro spalle, i guanti di lei, i polsini delle loro giacche con gli stessi bottoni, i movimenti delle loro mani, lo sfiorarsi dei nasi, l’oscurità che sposa i loro abiti su misura e l’ombra della siepe, la luce che illumina foglie e pelle – suscita l’idea del tratto che separa decoro/desiderio, vestito/svestito, occasione pubblica/privacy. E questo tipo di separazione è un’esperienza universale dell’età adulta.
Kertész stesso ha detto: “L’apparecchio fotografico è il mio strumento, Grazie ad esso dò una ragione a tutto quel che mi circonda”. Dovrebbe essere possibile costruire una teoria sullo specifico processo fotografico del “dare una ragione”.»
Il brano di John Berger è tratto dalla raccolta di saggi appena uscita, Capire una fotografia. Molti dei saggi migliori di Berger sono anche dei viaggi, dei viaggi epistemologici che ci portano oltre il momento raffigurato, spesso oltre la fotografia – e qualche volta di nuovo indietro – scrive nell’introduzione Geoff Dyer, altro grande narratore della fotografia. Anche lui ha interpretato una foto ‘in panchina’ di Kertész nel passaggio che segue, tratto da L’infinito istante. Continua a leggere